“L’arte del sogno” di Michel Gondry

L'arte del sognoDopo il cervellotico e visionario Eternal sunshine of the spotless mind, terribilmente tradotto in italiano con il titolo Se mi lasci ti cancello, Michel Gondry torna a trattare il tema dell’amore e della relazione sentimentale in modo innovativo, con uno stile ancor più bizzarro e surreale ne L’arte del sogno. Il film si apre con il protagonista Stéphane (Gael Garcia Bernal) intento a mostrare nel suo show televisivo mentale la ricetta di come si prepara un sogno: tra resti diurni, ricordi, emozioni e tutto ciò che finisce in “zioni”, Stéphane (doppio di Gondry, non a caso suona la batteria come il regista ed è artefice della sigla della sua trasmissione, oltre ad occuparsi della regia nel posizionare le telecamere) si/ci introduce letteralmente nel sogno cinematografico e nel farlo diventa anche spettatore, aprendo il sipario “della mente” (una tenda di plastica trasparente) e iniziando a parlare a bassa voce “per non rischiare di svegliarsi”.

Così Stéphan regista-attore-spettatore si dissolve letteralmente nelle immagini oniriche, astratte e dai colori accesi su cui compaiono i titoli di testa ed inizia il film-sogno con la voce narrante del protagonista che rimanda a quella del genitore che racconta le favole al proprio bambino per farlo addormentare. In fondo come disse Ingmar Bergman nella sua autobiografia Lanterna magica: “Il film, quando non è un documentario, è un sogno” e lo spettatore è un sognatore che in quanto tale sta in silenzio, al buio ed è immobile e indifeso.

Ciò che ci viene mostrato dunque è il sogno di Stéphane-Gondry ambientato in una Parigi uggiosa, priva di colore come il lavoro “creativo” che la madre ha trovato al nostro protagonista, un ragazzo fin troppo fantasioso, che ha da sempre un disturbo mentale che lo porta a non sapere distinguere i sogni dalla realtà. Stéphane è appena arrivato dal Messico, dove ha vissuto con il padre in seguito al divorzio dei genitori, e ora che quest’ultimo è morto, il figlio è tornato dalla madre francese che vive in un condominio parigino e che è la padrona di casa di Stéphanie (Charlotte Gainsbourg), residente nell’appartamento di fronte.

I sogni di Stéphane, caratterizzati da un’animazione rudimentale e un frequente uso dello stop motion alla Svankmajer, sono tutto l’opposto della sua vita reale, monotona e frustrante; nel mondo che egli crea ad occhi chiusi ha tutto quello che gli manca nel mondo reale, ha il lavoro creativo che vorrebbe così come una storia d’amore felice e fiabesca, non è un uomo impacciato ma completamente realizzato. Purtroppo, ogni volta che si rende conto di star ancora sognando ad occhi aperti, si scontra con la brusca realtà e lo sgomento delle persone che gli si trovano intorno, come Stéphanie o i suoi colleghi di lavoro.

Più che mai, in questo film, Gondry sembra omaggiare Alain Resnais, nello stile onirico e visionario ma anche stravagante e fantastico, soprattutto in film come La vita è un romanzo, Voglio tornare a casa, Smoking/No smoking… i lavori dei due registi francesi sono accomunati dall’interesse per l’immaginario e i mondi favolistici, per le associazioni mentali, i sogni e le fantasie ma anche per l’amore e le relazioni complicate. L’arte del sogno sembra dirci che l’amore è un sogno, ovvero “possibile solo in sogno”, e seguendo la scia di Eternal sunshine of the spotless mind anche questa pellicola si conclude lasciando allo spettatore un sapore amaro come quando si torna alla realtà dopo essersi svegliati da un bellissimo sogno.

Voto: 8

Informazioni su L'inquilina del terzo piano

Martina Cancellieri. Giornalista iscritta all'OdG del Lazio. Laureata in Cinema, televisione e produzione multimediale. Analizza, recensisce, sviscera film.
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