“The Post” e il coraggio della verità: lo scandalo dei Pentagon Papers narrato da Steven Spielberg

The Post foto3L’ultima pellicola di Steven Spielberg è un’opera per certi aspetti ambivalente come la storia che tratta. “The Post” sta sì per “The Washington Post” (o più semplicemente il “Post”), ma anche per “corrispondenza”, “consegna”, “inviare”, “pubblicare”, tutte azioni su cui gira l’irrequieta, dilemmatica e travagliata vicenda dell’ultima grande storia diretta dal regista di E.T., Schindler’s List, Intelligenza artificiale.

Siamo nell’America del 1971, il Presidente è Richard Nixon che nel film non è altro che una voce e una figura di spalle e senza volto. Le poche volte che egli viene inquadrato la macchina da presa lo riprende esclusivamente di spalle e all’interno della Casa Bianca, ma mantenendo bene le distanze. Il punto di vista infatti si trova sempre all’esterno, non solo non si avvicina mai a Nixon ma nel mostrarlo la regia addirittura lo “imprigiona” attraverso l’espediente visivo delle griglie bianche sulle vetrate della Casa Bianca.

Il breve prologo di The Post ci immerge a tutti gli effetti nelle giungle del Vietnam dove i soldati combattono, si difendono, si nascondono. Il film comincia con questa sequenza d’impatto in Vietnam per poi spostarsi nell’America civile dove resterà fino alla fine.

La prima volta che vediamo insieme Katharine Graham (Meryl Streep) e Ben Bradlee (Tom Hanks) questi ci vengono presentati seduti a tavola, non propriamente affianco né di fronte l’un l’altra. Ce li introduce un piano sequenza elegante almeno quanto loro, la macchina da presa gli gira intorno disegnando un semicerchio per poi posizionarsi di fronte ma senza stabilizzarsi del tutto.

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Katharine è la direttrice del Washington Post mentre Ben è un suo subordinato, un giornalista deciso, sfrontato, ambizioso. Prima ancora che i dialoghi esplichino gli stridenti contrasti fra i due personaggi è la regia a mostrarci una criticità dividendo l’inquadratura in due parti con Ben a sinistra e Katharine a destra, al centro una lampada a stelo che funge efficacemente da split screen.

Non appena il contrasto viene esplicitato anche dai dialoghi il piano sequenza viene “interrotto” con il primo di una breve serie di campo/controcampo che segnano il via del cosiddetto montaggio invisibile. Tale montaggio classico, unito ad una regia fatta per di più da delicati carrelli e lenti zoom, verrà mantenuto per tutta la prima parte della pellicola, rivolgendo l’attenzione sulla ricostruzione narrativa in dettagli dello scandalo che vede protagonisti i Pentagon Papers: documenti governativi top-secret lunghi migliaia di pagine.

Spielberg rielabora con precisione quasi matematica una vicenda storica cruciale per il giornalismo e che ha visto minacciata la libertà di stampa. Da questa paura sono emersi coraggio e solidarietà giornalistici al fine di difendere una professione le cui basi sono la ricerca e la diffusione della verità.

Superata la prima parte storico-informativa, un’“introduzione” di un’ora sicuramente interessante ma che si percepisce tutta, la seconda metà del film cambia completamente di registro. Come liberatosi del fardello narrativo ora The Post sfreccia sui binari del thriller e del dramma, senza farsi mai mancare suspense e momenti difficili rappresentati magnificamente da una regia slegata ed empatica, dalle interpretazioni di un convincente Tom Hanks e di un’impeccabile Meryl Streep nel ruolo fragile, ambivalente e propriamente femminile del suo personaggio.

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Nella seconda parte del film l’aspetto tecnico diventa dunque prorompente e più autoriale, non più oggettivo e poco visibile, regalando alcune chicche dai rimandi hitchcockiani come il dettaglio del dito di Tom Hanks sul pulsante del telefono per chiudere la chiamata, letteralmente dettaglio-indice di una scelta importante; ma ancor di più la sequenza, di grandissimo effetto, della telefonata decisiva che ritrae una Meryl Streep spaventata, incerta, persa come la macchina da presa che dall’alto le gira vorticosamente attorno per bloccarsi infine sul suo volto. Un po’ come la Tippi Hedren in una sequenza clou de Gli Uccelli o verso il finale di Marnie. Anche nel film di Spielberg, come in Hitchcock, c’è un uomo che “salva” una donna, e viceversa considerando che nel sottotesto tipicamente americano la stabilità si trova nell’unione e nella collaborazione, comunque sia nella coppia (Katharine è vedova ed è diventata direttrice del Post dopo il suicidio del marito).

Senza infamia e senza lode le musiche di John Williams che accompagnano in modo funzionale la storia nell’ormai riconoscibile stile Williams per Spielberg e segnando difatti la ventottesima collaborazione fra il compositore e il regista.

The Post ha ricevuto due nomination agli Oscar 2018 per il miglior film e per la miglior attrice a Meryl Streep.

Voto: 8

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Informazioni su L'inquilina del terzo piano

Martina Cancellieri. Giornalista iscritta all'OdG del Lazio. Laureata in Cinema, televisione e produzione multimediale. Analizza, recensisce, sviscera film.
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